XXIII Domenica del Tempo Ordinario 

Anno C – Sapienza 9, 13-18; Filemone 9b-10.12-17; Luca 14,25.33 

SCEGLIERE L’AMORE PIÙ GRANDE 

Giancarlo Bruni O.S.M., in Il suonatore di flauto, ed. Servitium ed. a Cura del Priorato di Sant’Egidio – Sotto il Monte (BG) pag. 164-167; 23.a del Tempo Ordinario, Anno C 

1. «Chi ha orecchi per intendere intenda»: una  parola che è “sale bello e buono” (Luca 14, 34-35),  in grado, cioè, di rendere sapiente-saporoso,  profumato (2Corinzi 2, 15) e musicale (Luca 7, 32)  il tempo dato a vivere. E tale lo è quello del  discepolo che senza indugi e con radicalità si  decide per Gesù e il suo vangelo. Al contrario, il  cristiano tiepido, che si ferma a metà dell’opera o  che torna indietro, è un non sapiente insipido, pr vo di utilità (Luca 14, 35; Apocalisse 3, 16). 

È questa l’ottica alla cui luce leggere una  pagina che non sempre i nostri orecchi vorrebbero  sentire, non tanto per la chiamata a un discepolato che senza tentennamenti va di corsa verso Gesù per  seguirne le orme (Luca 14, 25; Filippesi 3, 12),  nella consapevolezza della bontà di una scelta, ma  per i prezzi che essa comporta e che riguardano le  ragioni dell’io, i legami di sangue e i beni. Snodi  che non possono essere elusi, con condizioni poste  da Gesù stesso in termini categorici: l’«odiare» e il  «portare la croce». 

2. Gesù è in cammino dalla Galilea a Gerusalemme, dalla regione di un qualche  riconoscimento alla città della non accoglienza  (Luca 19, 41), un viaggio con ancora «molta gente  che andava con lui». Ed è proprio questo dato di  fatto, il “siccome”, il “poiché”, il “dal momento” che una numerosa folla lo seguiva, che lo spinge a  voltarsi indietro e a dire (Luca 14, 25) una parola  tesa a far luce sul che cosa comporta l’andare verso  di lui, dietro a lui. Disilludendo da una sequela  fondata su un entusiasmo non filtrato: mai infatti  Gesù seduce, mai illude e mai strumentalizza  situazioni di euforia o di debolezza, semplicemente gli premono la verità e risposte ponderate nella  libertà. 

E la verità prima è questa: «Se uno viene a me  e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i  fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può  essere mio discepolo» (Luca 14, 26); «Così  chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi,  non può essere mio discepolo» (Luca 14, 33). A  voler dire: «Chi non mi preferisce, chi non mi ama  più di…» non è adatto a stare con me condividendone viaggio, sorte e destino ultimo.  “Odiare” infatti è un semitismo che equivale ad  “amare di meno” e, posto in bocca a Gesù, vuol  dire che per divenire suoi discepoli è condizione imprescindibile l’essere egli il “più amato” di tutti  e di tutto, più dell’io, del clan parentale e degli  averi. Un amare di più che, in concreto, ed è questa  la seconda condizione della sequela, significa  croce: «Chi non porta la propria croce e non viene  dietro di me, non può essere mio discepolo» (Luca 14, 27). 

L’amare veramente Gesù non si misura  sull’onda delle emozioni e delle devozioni, ma è  provato dal far proprio il suo orientamento di vita,  il sollevare e il caricarsi sulle spalle come lui e in  forza di lui «il giogo dolce e il carico leggero»  (Matteo 11, 30) di un amor maniera di Giovanni:  «Voi siete miei amici, se farete ciò che vi  comando» (Giovanni 15, 14), e ciò che vi comando  è questo: «Amatevi come io vi ho amati» (Giovanni 13, 34). 

Gli entusiasti sono invitati da Gesù a ponderare bene le condizioni della sequela, a  sapere che si tratta di un viaggio d’amore fino alla  libera consumazione di sé per tutti. La direzione è appunto verso Gerusalemme, l’appuntamento dato  a tutti per contemplare in lui un Dio che è amore  ad altezza di croce; decidersi per lui lo è a queste  condizioni, per non ritrovarsi nella situazione di  chi ha cominciato a costruire una torre fermandosi  a metà, o di chi ha indetto una guerra votato alla  sconfitta per mancanza di discernimento delle  proprie e altrui forze (Luca 14, 28-32). Gesù non  ama cose lasciate a metà e inizi mai conclusi, che  generano derisione (Luca 14, 29) e tristezza (Luca 18, 23). 

3. Una pagina indubbiamente provocatoria, a  cui, per capirla adeguatamente, possiamo  sottendere una domanda: qual è la collocazione  migliore per apprendere l’arte dell’amare bene fino  in fondo? Il coraggio, di questo si tratta, del  lasciarsi amare dal Padre in Gesù, costituiti  soggetti, veicoli di amore. 

Discepolo è chi entra in lucida consapevolezza  in questo orizzonte, che merita adesione più di  ogni altra cosa e permette di amare bene ogni altra  cosa. Pertanto «mettere Dio, mettere Gesù al primo  posto vuol dire porre una garanzia che preservi  l’amore. Lo preservi dal diventare nido di egoismi  e lo mantenga vero amore» (Angelo Casati),  straniero alla centralità settaria del sé, del clan e  delle cose, aperto a una dedizione che né il sé, né il  clan né le cose possono imprigionare. La  conclusione è scontata: «Perché non giudicate da  voi stessi ciò che è giusto?» (Luca 12, 57): rende più salati, sapienti, ricchi d’amore una vita  ancorata a Cristo e al suo vangelo o il sì alle  ragioni assolutizzate dell’io, del sangue e del  capitale? 

Nella risposta sta il diventare discepoli o  meno, sta l’interrompere il viaggio verso l’apice  dell’amore o meno, sta la paradossalità di una  esperienza: la resa a un amore che non toglie  amori, semplicemente ci dischiude ad amare con  giustezza, con sovrabbondanza e con senso critico. 

L’amore di Dio in Cristo, riversato nei nostri  cuori (Romani 5, 5), diventa la fontana da cui  sgorgano ruscelli di placidi amori in verità.

Giancarlo Bruni, (1938) appartiene all’Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco della Comunità ecumenica di Bose.

Risiede un po’ a Bose e un po’ all’eremo di San Pietro alle Stinche (FI).