10 luglio 2022 – XV DEL TEMPO ORDINARIO  

Anno C – Dt 30,10-14; Sal 18; Col 1,15-20; Lc 10,25-37 

FARSI PROSSIMO DI CHI SOFFRE 

Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 10 luglio 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pie tro alle Stinche – Greve in Chianti, FI). In Ogni uomo è una zolla di terra, 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, «Farsi prossimo di chi  soffre», pag. 203-207, 15a domenica del tempo ordinario – Anno C. 

Leggendo questa parabola del buon samaritano che tutti conosciamo e che Cristo ha  pronunciato per rispondere al dottore della legge che gli domandava chi era il suo prossimo,  non so se avete notato una inversione nella risposta del Signore. Il dottore della legge gli  chiede: Chi è il mio prossimo? E nella parabola Gesù non dice chi è il prossimo, ma dice: anche  tu fatti prossimo. Perché il prete e il servo del tempio passano vicino a quel disgraziato e tirano  diritto. Il samaritano scende da cavallo, carica lo sventurato sulla sua cavalcatura, poi lo porta  in un albergo, lo consegna all’albergatore, paga anche per i giorni successivi e gli dice: quando  tornerò ti rifonderò di quello che avrai speso per lui; intanto abbi cura di lui. La domanda è  questa: chi si è mostrato come prossimo? Colui che ha avuto misericordia.  

Non so se osservate, se vedete la differenza. Non è domandato a noi cristiani di amare il  prossimo, ma ci è domandato di farci prossimo a chi soffre, a chi è calpestato dalla vita, a chi è  ferito, a chi giace sul margine della strada ignorato da tutti, perché – e la risposta mi sembra  proprio nello spirito del Vangelo -, come vi ho detto altre volte, il Vangelo è concreto. Noi  uomini siamo portati all’astrazione. Quando diciamo: io voglio amare il prossimo, questo  prossimo diventa una definizione, un qualcosa di vago: può essere l’affamato, il carcerato,  l’afflitto da malattie, colui che è senza pane e senza casa, ma rimane tutto nel vago. Il  cristianesimo invece è sempre concreto, non formula dei grandi programmi. Noi cristiani  abbiamo formulato dei grandi programmi e siamo rimasti come il sacerdote e come il servo del  tempio. Diciamo di amare il prossimo ma poi, quando si tratta di scendere da cavallo, di  caricare sulla nostra cavalcatura lo sventurato che è stato colpito dalla vita, lo facciamo con  grande difficoltà e continuiamo a cavalcare, annunciando a tutti che il cristianesimo è l’amore  del prossimo. Mentre Cristo ci dà una via molto concreta e ci dice: non importa che perdiate  tempo a formulare dei progetti e delle ideologie sull’amore del prossimo, ma fatevi prossimo.  E questo è difficile.  

In famiglia ci dobbiamo far prossimi delle persone che sono nella sofferenza o nel  turbamento o nella disperazione o che in qualche maniera hanno bisogno della nostra mano;  nella società dobbiamo farci prossimi, non istituendo – come purtroppo abbiamo fatto – delle  grandi associazioni caritative, ma scendendo personalmente da cavallo. Perché chi di noi non  si imbatte in qualche sofferenza, in qualche disperazione, in qualche disgrazia nella vita? Sono  milioni e milioni le persone che sono nella sofferenza: questa sofferenza altri la risolveranno  attraverso delle ideologie politiche o sociali o religiose, il cristiano le risolve sempre  personalmente. Perché ci può capitare questo – come ci è capitato – che noi siamo angustiati per  la sofferenza che è nel terzo mondo. Pensate, non so, in Cambogia c’è la fame, c’è la lebbra, e ci  agitiamo e non vediamo la fame che abbiamo accanto, non vediamo l’affamato che abbiamo  vicino, non vediamo il disperato, il carcerato, con il quale ci imbattiamo lungo la strada o che ci  sono vicini di casa. 

Il cristianesimo è concreto, cioè risolve caso per caso tutte le situazioni di sofferenza e  non per amore di Cristo o per amore di altri ideali. Semplicemente, c’è una sofferenza, il  cristiano scende da cavallo e dà quello che può dare e che è chiamato a dare in quella  determinata situazione. E sarebbe bene che noi, seguendo l’indicazione di Gesù Cristo,  cambiassimo un po’ la terminologia, perché il linguaggio è importante e qui mi sembra ci sia stato uno sfocamento del linguaggio. Se voi domandate a un cristiano – e anche a me lo  domandate – ami il tuo prossimo?, la risposta è: son cristiano, amo il mio prossimo. Ma se mi  domandate: ti fai sempre prossimo della sofferenza e dei sofferenti che incontri lungo il tuo  cammino?, qui la risposta diventa molto più difficile perché spesso, anche in nome di ideali e  di teorie, dimentichiamo la sofferenza concreta nella quale ci imbattiamo lungo la strada, e che  dobbiamo risolvere.  

È molto più facile e più consentaneo alla nostra natura, che è portata sempre ad alienarsi  dalla concretezza, formulare dei grandi piani per la risoluzione di tutta la fame che è nel  mondo. E questo lo facciamo. Anche nelle nostre chiese facciamo delle adunanze dove  parliamo della sofferenza del nostro paese e di altri paesi. In genere parliamo delle sofferenze  dei paesi lontani. Non che non siano reali, ma a noi cristiani è chiesto di non fare dei grandi  programmi ma di risolvere, gradatamente che le incontriamo, momento per momento, sempre  concretamente, tutte le situazioni di sofferenza che ci si presentano. E allora dobbiamo  cambiare linguaggio: il cristiano non è chiamato ad amare il prossimo, è chiamato a farsi  prossimo – e questo è più difficile – a scendere da cavallo, andar vicino a chi soffre, caricarlo  sulla propria cavalcatura, curarlo, dando tutto quello che è necessario perché il colpito possa  riprendere la vita. Non vi sembra che sia così? E sarebbe bene che ci abituassimo a dire: il  cristiano non è colui che ama il prossimo, ma è colui che si fa prossimo di qualunque  sofferenza. Perché se ci mettiamo a distinguere fra prossimo e prossimo, cominciamo a dire:  chi è il mio prossimo? – come fa questo dottore della legge – e chi devo amare? Cominciamo  subito a fare delle distinzioni e delle divisioni dolorose. Cominciamo a dire: io ritengo mio  prossimo quello che è cattolico; il luterano, niente. Oppure, io ritengo per prossimo quello che  vota politicamente secondo il partito nel quale milito; l’altro non è il mio prossimo.  

Invece, cristianamente, dobbiamo vedere la persona che incontriamo, la sua sofferenza,  e far di tutto perché questa sofferenza sia alleviata, indipendentemente dal colore della pelle,  dal partito, dalla religione, dalle convinzioni che questo altro ha. E non per niente Cristo  sceglie una figura che era scandalosa per gli ebrei: i samaritani erano un po’, più o meno,  quello che sono per noi i turchi. E prende tre personaggi come esemplari: il prete del tempio,  che passa, guarda, e tira diritto; il sagrestano del tempio, che passa, guarda e tira diritto. Poi  arriva il turco: il turco si commuove, scende dalla sua cavalcatura e fa tutto quello che doveva  fare. Ecco, il turco, dice Cristo, è colui che ha avuto compassione ed è lui che si è fatto  prossimo.  

Pensateci. E cominciamo a dirci, nella nostra vita: io mi devo far prossimo di qualunque  persona che concretamente incontro e che concretamente soffre. E devo intervenire nella  misura in cui sono capace affinché la sofferenza, la disperazione, la fame, lo smarrimento, la  solitudine, la mancanza di libertà, siano sollevate con il mio intervento. Allora scoprirete che il  cristianesimo non è una ideologia, ma è una partecipazione alla vita guidata dal cuore, guidata  dall’avere costantemente compassione di tutte le sofferenze che incontriamo. Allora  interroghiamoci: noi riusciamo sempre a farci prossimi di tutte le sofferenze che incontriamo?